Perché audience development culturale

Perché audience development culturale

Perché audience development culturale

Non sempre è stato così: per secoli artisti, produttori di cultura e pubblico si sono visti allineati all’interno di uno stesso orizzonte logico in base al quale, da un lato, si trovava qualcuno che aveva “qualcosa da dire” e dall’altro qualcun altro che riteneva in qualche modo “godibile” il momento dell’ascolto e che quindi – nell’architettura variegata delle opzioni possibili – sceglieva di sedersi di fronte ad un palcoscenico, di accomodarsi in una sala cinematografica, di partecipare ad un salon, ad un’esposizione o a una mostra.

Euripide metteva in scena una tragedia e gli ateniesi del quinto secolo a.C. si accalcavano nei teatri per assistervi, Puccini scriveva Fanciulla del West e non era raro incontrare persone con la terza elementare che sapessero canticchiarne le arie principali, milioni di persone – di ogni ceto, provenienza e formazione – partecipavano alle esposizioni internazionali.

Oggi comunemente, di fronte a questa semplice osservazione di carattere generale, vengono opposte due tipiche obiezioni.

La prima ritiene esterni al perimetro della vera e propria “produzione culturale” esempi analoghi a quelli citati. La seconda, altrettanto frequente e forse più tranchant, sposta il piano del ragionamento sull’immancabile mutamento dei tempi, il che impedirebbe ogni tipo di eventuale raffronto.

A fronte del primo argomento, va tuttavia ricordato – ad esempio – che Puccini fu uno dei più radicali innovatori del genere operistico, tutt’altro che un mestierante ammaliatore di “anime belle” e che all’esposizione internazionale di Parigi di metà Ottocento (a cui parteciparono circa 5 milioni di persone) esponevano pittori del calibro di Corot, Delacroix, Ingres.

Il secondo argomento, per quanto di carattere estremamente generale, consente di mettere a fuoco una parte del problema e di tracciare i contorni di possibili soluzioni. Effettivamente “i tempi sono cambiati”, qualcosa si è interrotto. Questa rottura ha un carattere per così dire “puntuale” se raffrontata con lo scorcio temporale molto ampio in cui si è passati dalla fruizione culturale come “fenomeno naturale” a una fruizione identificabile anche come “fenomeno indotto”.

Di fronte ad un problema così complesso, tuttavia, non è del tutto inutile porsi due domande semplici. Quando è successo? Perché?

Qualcuno individua la causa di questa “rottura” nel generale mutamento dei costumi, altri – più specificamente – nella diffusione della televisione come strumento di intrattenimento di massa, altri ancora l’avvento di internet, lo scadimento delle linee editoriali, il sistema scolastico che non alleva generazioni di diligenti melomani, e via dicendo.

Osservazioni tutto sommato corrette come quelle appena descritte rischiano, però, di spostare la focale dalla “proposta” alla sua “alternativa”. Per spiegare il motivo per cui Mario Rossi, il sabato sera, non va a teatro con la moglie si osserva come lo stesso Mario Rossi abbia optato per trascorrere la sua serata sul divano, davanti alla televisione. In appendice si constata, solitamente, come il livello culturale dell’offerta di cui Mario Rossi ha deciso di fruire sia piuttosto basso e si registra il consueto decadimento di costumi, che – come sempre – mette tutti d’accordo. È evidente lo spostamento della focale: anziché ragionare su che cosa effettivamente manchi alla proposta teatrale per risultare una scelta possibile agli occhi del nostro, si è concentrata l’attenzione su ciò che, in ultima analisi, ha rappresentato un’alternativa per lui più interessante.

Questa sorta di strabismo non fa bene al mondo della cultura che – così facendo – in qualche modo si assolve e assume caratteri di resistenza (o impermeabilità) di fronte ai processi di innovazione che stanno attraversando altri settori.

Per comprendere la ragione per cui oggi il comparto culturale è attraversato sempre più spesso dal tema dell’audience development e perché ci sembri persino naturale un’antinomia fra “contenuti rigorosi e attendibili” e “contenuti attraenti e interessanti” è opportuno uno sguardo a ritroso, focalizzato su alcune delle macro-dinamiche che hanno segnato il mondo della cultura negli ultimi 60 anni e i rapporti di questo “mondo” con il tema del “pubblico” e della sua “partecipazione all’offerta”.

Una quota del tutto maggioritaria del settore, fin quasi all’inizio del decennio che stiamo vivendo, ha basato la propria sostenibilità, e in molti casi anche la propria sussistenza, essenzialmente su una contribuzione attuata attraverso risorse economiche pubbliche.

A partire dal dopoguerra, e fino ad anni piuttosto recenti, un importante flusso di denaro pubblico ha sostenuto teatri e musei, enti lirici e mostre, festival e rassegne con lo scopo principale di raggiungere due obiettivi:

1. allargare e democratizzare le possibilità di accesso alla cultura;
2. salvaguardare dalle dinamiche “di mercato” il “prodotto culturale”.

Seppur con alcune significative differenze, il sostegno pubblico alla cultura ha interessato trasversalmente il comparto, a prescindere dalla natura o dal dimensionamento delle organizzazioni, dal settore di attività, dall’area geografica di riferimento.

Questo sostegno “esogeno” ha comportato, come effetto diretto e inevitabile, il fatto che il comparto intero, con pochissime eccezioni, potesse spesso permettersi il privilegio e il lusso dell’autoreferenzialità: la possibilità – impensabile all’interno di altri settori – di trascurare (e talvolta ignorare) quella logica naturale che mette in relazione la domanda e l’offerta.

In nome del principio indubitabile in base al quale il prodotto culturale non è in grado, per sua natura, di trovare piena sostenibilità in un contesto di mercato e in base alla condivisibile considerazione per cui l’offerta culturale non può modellarsi esclusivamente intorno ai desiderata dei fruitori, generazioni di direttori artistici, curatori, sovrintendenti, promotori hanno concentrato i propri sforzi sulla qualità del “prodotto”, di fatto mettendo in secondo piano la necessità di offrire al pubblico momenti intellegibili e godibili.

Quest’impostazione di comparto è probabilmente una fra le cause principali del fatto che oggi si registri, nel nostro Paese, una debolissima partecipazione del pubblico all’offerta culturale: il 38,8% della popolazione adulta è totalmente inattiva sotto il profilo della partecipazione culturale, con picchi che si avvicinano al 60% nel cosiddetto “Mezzogiorno interno” (fonte Istat 2016).

La situazione italiana, per quanto particolarmente critica, corrisponde a dinamiche più ampie che interessano tutta l’area europea. La situazione tratteggiata dal report Eurobarometer sulla partecipazione culturale, nel passaggio fra il 2007 e il 2013 evidenzia dati quasi sempre in calo, in coincidenza con una diminuzione dei consumi che è ormai assumibile come dato tendenziale: diminuiscono i fruitori di musei (dal 41% al 37%), di concerti (dal 37% al 35%), di biblioteche (dal 35% al 31%) e – in generale – i fruitori di “prodotti culturali”.

Quello registrato dalle statistiche, in verità, è un dato che a ben vedere potrebbe avere contorni meno pessimistici in quanto è riferito alla fruizione di prodotti culturali tradizionalmente intesi (libro, cinema, teatro, concerto, ecc.) e quindi non rileva le modalità e le pratiche di consumo più recenti (es. fruizione di contenuti streaming o on demand), tuttavia è chiaro come le istituzioni e le organizzazioni culturali oggi debbano fare i conti con un pubblico che – in termini generali e in relazione ai “prodotti culturali” consacrati come tali dall’eredità di decennali liturgie – è sempre meno numeroso e (soprattutto) è sempre più interconnesso a variabili socio-demografiche (età, reddito, etnia, area geografica, ecc.).

La situazione, anche in questo caso, non riguarda in modo specifico il nostro paese: le attuali indicazioni dell’Unione Europea in fatto di programmazione culturale danno conto di come lo sforzo avviato a metà Novecento e orientato a democratizzare l’accesso alla cultura abbia dato risultati modesti e deludenti, a prescindere dalle policy adottate localmente dai vari Stati.

Nello scenario congiunturale che vede i pubblici gradualmente assottigliarsi, si è innestata, in relazione alla generalizzata crisi economica, una progressiva e radicale diminuzione del sostegno pubblico alla cultura.

Quindi, ricapitolando per sommi capi la trama del percorso: da un lato si assottiglia il numero dei fruitori, dall’altro viene meno la fonte principale di sostenibilità.

La combinazione di questi fattori, di per sé apparentemente preoccupante, sta implicando alcune conseguenze trasformative che possono essere considerate positivamente.

In primo luogo, l’arretramento dell’intervento pubblico spalanca le porte alla legittimazione e alla rivalutazione del ruolo dell’impresa culturale. In quei campi prima presidiati saldamente dalla pubblica amministrazione, e oggi lasciati liberi, si creano spazi per innovative pratiche culturali sviluppate su base privatistica e quindi – di fatto – imprenditoriale.

In secondo luogo, inizia a sfumarsi la componente “curatoriale/autoriale” degli operatori della cultura a favore di modalità di progettazione e operative sempre più attente a chi entra in contatto con le proposte. Mentre, in un’ottica che comportava pericolosi riflessi di autoreferenzialità, ci si è basati per decenni sul “cosa”, oggi diventa altrettanto importante il “come” e il “per chi”.

In questo contesto, l’audience development e l’audience engagement assumono per enti, istituzioni e imprese culturali, una rilevanza prima sconosciuta, ponendosi come obiettivo l’ampliamento del pubblico, la sua diversificazione e il miglioramento della relazione fra pubblico e “prodotto culturale”, in un’ottica in cui il settore culturale – per garantirsi accettabili livelli di sostenibilità – deve in qualche modo affermare la propria rilevanza sociale.

Il mio punto di vista sul tema non può che essere quello dell’impresa culturale e quindi è un punto di vista parziale e probabilmente limitato. E’ evidente, infatti, come per l’impresa culturale, al di là dell’eventuale orientamento all’impatto sociale che l’organizzazione può darsi per mission, sia del tutto imprescindibile operare affinché i fruitori (potremmo spingerci a chiamarli “consumatori”?) siano il più possibile:

1. numerosi (ampliamento del pubblico “centrale” o “coinvolto”);
2. diversificati (coinvolgimento del pubblico “potenziale”);
3. interessati a nuove, varie e ulteriori proposte (il pubblico coinvolto oggi sarà interessato ad essere un pubblico anche domani?).

L’esigenza di mettere in equilibrio queste tre componenti contiene la risposta al quesito di partenza.

Non si delinea, infatti, uno scenario in cui l’attitudine al dialogo con fasce del tutto trasversali di pubblico e la salvaguardia del valore culturale e scientifico dei contenuti si trovano su sponde opposte. Anzi, la necessità di offrire stimoli sempre nuovi ai pubblici coinvolti mette al riparo dal rischio, agitato spesso come spauracchio, di un’offerta culturale che insegue a tutti i costi la domanda e quindi si appiattisce, perde spessore e raffinatezza.

L’esperienza dimostra come oggi, scardinati definitivamente i tradizionali canoni della partecipazione, sia un falso mito, alimentato da decenni di autoreferenzialità, quello che contrappone un’offerta culturale densa di contenuti e raffinata nelle forme destinata ad un pubblico esiguo (per numero) e profondo (per preparazione) e un intrattenimento culturale, povero in spessore, destinato a masse meno “acculturate”.

È dunque possibile salvaguardare il contenuto culturale, non snaturarne le modalità tipiche di “manifestazione” ed allo stesso tempo coinvolgere pubblici ampi, diversificati e soddisfatti, che vedono nella fruizione e nel “consumo” di un prodotto culturale un momento di “godibile” approfondimento, piacevole scoperta o intelligente intrattenimento?

Senza dubbio sì, e le migliori e più innovative pratiche di proposta culturale del nostro Paese si muovono esattamente in questa direzione.

I possibili ingredienti della formula:

1. la progettazione delle proposte tiene conto e trae spunto dell’analisi del contesto, della società e dei mercati culturali (la proposta è concretizzazione di un “sogno/bisogno collettivo” e non di un “sogno/bisogno individuale”). La proposta è progettata con l’obiettivo specifico di abbattere le barriere materiali e “immateriali” di accesso (barriere di natura fisica, economica, psicologica, sociale e culturale);

2. il marketing e la comunicazione partono da attività di indagine, di ricerca di ascolto e adottano stili e forme capaci di raggiungere i pubblici potenziali e i non pubblici (reach);

3. ogni aspetto connesso alla veicolazione dei contenuti è orientato al “rilievo” del messaggio, alla piacevolezza e alla comprensibilità. Tutto ciò che non è comprensibile, allo stesso tempo, non risulta piacevole, determina esclusione e rifiuto e, quindi, genera “non pubblico”. Allo stesso tempo, tutto ciò che è percepito come poco interessante o superficiale causa l’allontanamento di componenti significative di target (possibilità di lettura “multilivello” delle proposte, diversificazione dei “format”);

4. la “mediazione” è finalizzata a descrivere e interpretare il contesto, fornire strumenti per l’intellegibilità delle proposte e creare le migliori condizioni di esperienza;

5. la user experience nel suo complesso è curata in ogni dettaglio ed è orientata a criteri d’eccellenza (attenzione non solo rivolta al “prodotto culturale”, ma anche alle componenti di contorno);

Non è possibile dunque quantificare una percentuale di budget allocabile su attività di audience development e audience engagement, in rapporto al budget dedicato alla “produzione” o alla “promozione” dei contenuti.

È forse più corretto parlare di organizzazioni, enti, imprese che intendono “trasformarsi” per fronteggiare il cambio di paradigma che attraversa oggi il comparto culturale assumendo un approccio “audience oriented” e traendo in qualche modo un vantaggio competitivo da questa mutazione di scenario.

Questo nuovo approccio tende a caratterizzare trasversalmente le organizzazioni comprendendone i livelli apicali, la direzione culturale e scientifica, la gestione operativa e i servizi al pubblico, l’area marketing e comunicazione, la didattica e persino il fund raising.

Category:
Date:
Tags: