Dare i numeri nell’incertezza radicale

Dare i numeri nell’incertezza radicale

L’incertezza è fisiologica nella scienza. E, di fronte a un fenomeno nuovo e complesso come quello di un’epidemia generata da un virus che ha appena fatto un salto di specie, a maggior ragione non è possibile aspettarsi che la scienza possa fornire (alla politica e alla popolazione) dati certi e in tempi ridotti. Questo è un limite che va compreso e comunicato con onestà ai cittadini.

Le previsioni di efficacia delle decisioni politiche volte ad affrontare il problema devono fare i conti con l’incertezza, soprattutto in una fase di emergenza. Per quanto non semplice da accettare, è necessario comunicare che le cose stanno così senza farsi prendere dalla tentazione di ricorrere a semplificazioni e giudizi categorici.

Francesco Guala, professore di filosofia dell’economia, logica e teoria dei giochi all’Università di Milano, il 15 marzo su Doppiozero parla di decisioni, rischio e incertezza radicale:

Una scelta razionale non richiede certezza, ovviamente, altrimenti non usciremmo neppure di casa per andare a fare la spesa. Ma molti rischi possono essere stimati in modo abbastanza accurato: in Italia muoiono circa 10 persone al giorno in incidenti stradali, e in generale riteniamo che il vantaggio di muoverci rapidamente valga un rischio così piccolo. Ma non possediamo dati statistici di questo genere, nel caso del coronavirus. Abbiamo a che fare con un’incertezza radicale.

L’incertezza radicale porta a ragionare in questo modo: dobbiamo fare tutto il possibile per fermare il contagio, a qualsiasi costo. È un ragionamento plausibile perché ci sono molte vite umane in gioco. Vita e salute sono ‘valori sacri’, e qualsiasi misura volta a minimizzare l’impatto del virus appare legittima. Anche chiudere l’Italia.

E per ridurre tale incertezza radicale sarebbe auspicabile poter disporre di dati più affidabili, come auspicato da John P.A. Ioannidis, medico e epidemiologo della Stanford University il 17 marzo:

In un momento in cui chi crea modelli di malattie, i governi, le persone in quarantena o in distanziamento sociale hanno bisogno di informazioni migliori, mancano prove affidabili su quante persone sono state infettate con SARS-CoV-2 o che continuano a infettarsi. Sono necessarie migliori informazioni per guidare le decisioni e le azioni di importanza strategica e per monitorarne l’impatto.

Fatte queste considerazioni, risulta del tutto fuori luogo l’insistenza con cui le autorità e una larga parte dei mezzi di informazione comunicano i “numeri assoluti” dei nuovi casi di contagio giorno per giorno, senza sottolineare a sufficienza il significato del “tasso di crescita”, il cui andamento rappresenta un aspetto diverso rispetto ai numeri assoluti, ma cruciale per la comprensione pubblica del fenomeno dell’epidemia, per l’elaborazione di aspettative ragionevoli e per l’interpretazione del senso degli interventi di contenimento.

Esiste inoltre una differenza, non sempre sufficientemente comunicata, riguardo l’affidabilità dei dati. Dal momento che il test per valutare il contagio non viene effettuato in modo estensivo e con gli stessi criteri in tutte le regioni, i numeri relativi ai contagi rilevati sono sicuramente più impressionanti ma anche meno affidabili rispetto a quelli relativi alle morti. Occorre segnalare che anche su quest’ultimo dato pesa un certo grado di “rumore”.

A questo proposito, è da segnalare l’appello della Fondazione Gimbe, molto attiva nella raccolta dei dati e nell’elaborazione di questi:

Eliminare dal conteggio dei dimessi/guariti per Covid-19 i casi con status di guarigione non noto e distinguere le guarigioni cliniche da quelle virologiche. È la richiesta della Fondazione Gimbe a ministero della Salute e Protezione civile, che ogni giorno riportano nel bollettino i dati aggregati in tre macro-categorie – “attualmente positivi”, “dimessi/guariti” e “deceduti” – la cui somma corrisponde al totale dei casi riportati dall’Italia all’Oms.

Wired il 3 aprile ha deciso di non riportare più i dati giornalieri comunicati dalla Protezione Civile durante il “rito” che si ripropone tutti i giorni alle ore 18.00. Come si legge sul sito della rivista:

Tutte queste (fisiologiche) incertezze, queste sottostime e questi dubbi, insieme alla certezza che un’epidemia non si spiega guardando al singolo giorno, ci hanno portato a una conclusione: riportare quotidianamente questi dati non fornisce un servizio ai nostri lettori. Anzi rischia di confonderli ulteriormente, non rappresentando una descrizione accurata della realtà, in un panorama in cui siamo bombardati di informazioni sul nuovo coronavirus.

L’incertezza è parte integrante della scienza e gli epidemiologi ne sono perfettamente consapevoli. Tuttavia questa è destinata a raggiungere dei livelli insostenibili quando la raccolta dei dati, complice la situazione di emergenza, viene progettata e realizzata in modo poco affidabile (sottostime, disomogeneità nei protocolli, parzialità, ecc). Diventa così estremamente più critico per gli scienziati fare previsioni sull’andamento dell’epidemia, per i decisori politici definire le misure più adatte per gestire l’emergenza e per i cittadini, messi a dura prova dalle restrizioni, conservare un senso di fiducia nei confronti delle istituzioni. Con questa consapevolezza la comunità scientifica e quella dei comunicatori della scienza sta manifestando chiari segni di insofferenza, in certi casi lanciando veri e propri appelli come quello dell’8 aprile rivolto da Wired alla Protezione Civile e alle autorità.