Dalla mappa etica all’identità professionale: ricostruire l’ecosistema della comunicazione della scienza partendo dai valori

Dalla mappa etica all’identità professionale: ricostruire l’ecosistema della comunicazione della scienza partendo dai valori

Dalla mappa etica all’identità professionale: ricostruire l’ecosistema della comunicazione della scienza partendo dai valori

Che cosa rende la comunicazione della scienza una cosa buona, moralmente corretta e utile per la società? La domanda è stata posta sul Journal of Science Communication da Fabien Medvecky, professore di comunicazione della scienza all’Università di Otago, in Nuova Zelanda [1].

E la risposta non è quella che uno scienziato si aspetterebbe: non esiste una sola buona ragione per far arrivare i risultati della scienza al grande pubblico. Ve ne sono molte, alcune delle quali in contraddizione tra loro: c’è la necessità di informare in modo obiettivo e trasparente su cosa si è fatto con il denaro pubblico e sui progressi della umana conoscenza, ma anche di educare e allenare al pensiero critico, attraverso una narrazione della scienza che metta in luce il metodo più che il risultato.

La finalità etica della comunicazione della scienza dovrebbe, per esempio, essere allo stesso tempo quella di chiarire i dubbi offrendo strumenti di conoscenza e quella di invitare a dubitare e proseguire nella ricerca di una risposta compatibile anche con la propria visione del mondo, abituando il cittadino e il policy maker a fare i conti, nelle decisioni quotidiane, con l’incertezza, il rischio, il calcolo delle probabilità, i valori individuali e, in definitiva, con l’assenza di una verità assoluta e immutabile nel tempo e nello spazio.

Scrive in un articolo pubblicato su PNAS il sociologo dell’Università Statale del Michigan Thomas Dietz:

“Qualsiasi decisione coinvolge sia i fatti sia i valori, mentre la maggior parte della comunicazione della scienza si concentra solo sui fatti. Se la comunicazione della scienza ha come scopo quello di informare per decidere, deve essere consapevole sia dei fatti sia dei valori, perché la partecipazione pubblica [al dibattito scientifico ndr] coinvolge inevitabilmente sia i fatti sia i valori”. [2]

Una disciplina, molte professioni

Afferma ancora Medvecky:

“La comunicazione della scienza non può contare su guide etiche già determinate perché, fondamentalmente, non è né scienza, né giornalismo né comunicazione in senso stretto. La comunicazione della scienza può essere in relazione con tutto ciò ma è anche qualcos’altro. La domanda è che cosa sia esattamente questo ‘qualcos’altro’. Ed è da qui che nasce la riflessione etica in sé. Stabilire una base etica per la scienza della comunicazione richiede di stabilire qual è il cuore della comunicazione della scienza e come la comunicazione della scienza si relaziona con tutti gli altri ambiti menzionati”. [1]

In sostanza, per capire fino in fondo perché è giusto comunicare la scienza e qual è il modo più corretto per farlo, dobbiamo chiederci innanzitutto perché lo facciamo, e accettare che le ragioni non siano le stesse per cui facciamo scienza. La comunicazione della scienza, con qualsiasi strumento si declini, non è un’ancella della scienza, un semplice megafono che amplifica un’idea tutta positiva della ricerca e del progresso ma una disciplina a sé, con una propria epistemologia e una propria prassi.

La molteplicità di funzioni assolte dalla comunicazione della scienza si riflette nella varietà delle figure professionali coinvolte in questo settore. Sono comunicatori della scienza gli scienziati e i ricercatori quando raccontano il proprio (o l’altrui) lavoro; lo sono gli educatori che formano i giovani nella scuola e nelle università, ma anche quelli che gestiscono laboratori didattici e fanno le guide museali. Lo sono coloro che organizzano eventi culturali intorno alla scienza, dai festival, alle mostre, ai caffè scientifici. Si riconoscono come tali coloro che fanno della scienza l’argomento principale della loro presenza sui social media (blogger, youtuber e instagrammer). Sono comunicatori della scienza i tanti professionisti che lavorano nel settore del public engagement e che costruiscono processi partecipativi per rendere la ricerca scientifica più rispondente ai bisogni della società. Producono una forma peculiare di comunicazione della scienza anche coloro che operano negli uffici stampa e comunicazione degli enti di ricerca, delle associazioni e fondazioni non profit che finanziano la ricerca scientifica, delle industrie che hanno una attività di ricerca e sviluppo. E soprattutto lo sono, per ragioni storiche, i giornalisti scientifici, che svolgono il doppio ruolo di narratori della cronaca scientifica e di “cani da guardia” della scienza (secondo la classica funzione sociale del giornalismo, che è quella di garante della democrazia in tutti i settori della vita civile).

È possibile immaginare una cornice etica comune per figure professionali tanto diverse tra loro? È questo, oggi, l’oggetto della discussione. Quel che è certo è che è necessario trovare un minimo comune denominatore etico perché la crisi dei media classici, e la richiesta di una sempre maggiore flessibilità sul mercato del lavoro, hanno portato, in Italia come in altri Paesi, a un abbattimento delle barriere tra professioni un tempo considerate separate e distinte, se non addirittura inconciliabili.

Poiché le competenze richieste sono spesso comuni, non è raro che la stessa persona si trovi a ricoprire, in diversi momenti della propria vita lavorativa, ma talvolta anche in contemporanea, più ruoli professionali. E ciò non è estraneo alla perdita di credibilità dei comunicatori della scienza nei confronti del grande pubblico, che a sua volta non è estranea alla generale perdita di fiducia dei cittadini verso tutte le istituzioni.

La fiducia nella scienza

Ogni anno IPSOS Mori pubblica il suo Veracity Index [3], che valuta su un campione di cittadini britannici la credibilità delle diverse figure professionali. Il Veracity Index vede da anni gli scienziati ai primi posti, con l’85% per cento degli intervistati che dichiara di aver fiducia in loro contro il 26% di coloro che si fidano dei giornalisti, un dato in lieve aumento dal 2015 in poi. La piccola ripresa di credibilità del giornalismo è registrata anche dall’Edelman Trust Barometer [4], un’indagine condotta negli Stati Uniti e che vede, nel 2019, aumentare (seppure di poco) la fiducia nei professionisti che operano sui media soprattutto tra la popolazione più informata, in parallelo con l’esplosione del dibattito pubblico sulle “fake news” e sulla necessità di figure che fungano da intermediari tra la fonte e il lettore finale e che controllino l’attendibilità della prima.

Quando si tratta di questioni scientifiche, tuttavia, il sospetto che il pubblico “predichi bene e razzoli male” è giustificato da una interessante indagine condotta nel 2015 dal Pew Research Center statunitense, che ha messo a confronto l’opinione degli scienziati sui temi scientifici socialmente controversi (dagli OGM ai vaccini al riscaldamento globale) con quella dei semplici cittadini.

Il risultato è che la “fiducia” negli scienziati è più ideale che reale: se tra gli esperti affiliati all’American Academy for the Advancement of Science (AAAS) l’88% ritiene sicuro l’uso degli OGM in alimentazione, il 98% è convinto che l’evoluzione darwiniana sia una teoria affidabile e l’87% che il cambiamento climatico sia antropogenico, solo il 37, 65 e 50% della popolazione generale, rispettivamente, si adegua all’opinione degli scienziati sugli stessi argomenti.

Spiega Cary Funk in un articolo su Issues in Science and Technology [5], commentando l’indagine:

“È importante tenere a mente che l’opinione pubblica sulla scienza e sugli scienziati non è di per sé una indicazione del livello di fiducia. Un esempio riguarda il supporto del pubblico nei confronti delle innovazioni scientifiche e tecnologiche. Una indagine del Pew Research Center mostra che due terzi delle persone pensa che gli effetti della scienza sulla società siano per lo più positivi, il che è consistente con circa 35 anni di dati raccolti attraverso la General Social Survey. Ma se guardiamo alle componenti della fiducia nella scienza in tre specifiche aree scientifiche – vaccini, cambiamenti climatici e OGM nell’alimentazione – emergono due pattern diversi. Per prima cosa, la fiducia del pubblico negli scienziati è più forte se confrontata con altri gruppi sociali. Per esempio, molte persone hanno più fiducia nei medici, negli scienziati del clima e in chi fa ricerca sugli OGM rispetto a ciò che dicono su questi temi i leader industriali, i media e i funzionari pubblici. D’altro canto, non più del 50% degli intervistati ha una fiducia solida nelle opinioni che gli scienziati hanno di questi argomenti. Per esempio, solo il 47% degli intervistati pensa che i medici capiscano ‘molto bene’ gli effetti del vaccino trivalente, e il 43% pensa che li conoscano ‘abbastanza bene’. L’impresa scientifica è complessa e così la formazione di una opinione pubblica sulla scienza. La stessa nozione di ‘fiducia’ ha molteplici dimensioni. La fiducia del pubblico negli scienziati comprende le aspettative riguardo alle loro azioni, la fiducia nel fatto che siano onesti nel trasmettere le informazioni, la fiducia nella loro esperienza e capacità di capire, oltre che nelle motivazioni e influenze che operano sulla ricerca scientifica. A guardarla attraverso questa lente, la fiducia nella scienza è piuttosto varia, e cambia a seconda dell’ambito scientifico.

In sostanza, il pubblico “ha fiducia” nella figura dello scienziato ma non necessariamente in quello che dice sulle questioni che hanno una componente valoriale, politica o sociale e quando il giornalista scientifico o, più in generale, il comunicatore della scienza si limita a riportare lo stato dell’arte della scienza piuttosto che la complessità dei fenomeni in gioco rinforza, invece di contrastare, lo scetticismo dei cittadini.

Costruire un’etica propria

Il progetto SATORI, finanziato dal Settimo Programma Quadro della Commissione Europea ha condotto un’estesa analisi delle pratiche etiche in ambito scientifico e tecnologico nei diversi Paesi europei, individuando la cornice all’interno della quale si muovono i diversi portatori di interesse e le diverse discipline [6]. Dallo studio emerge il valore identitario delle cornici etiche che ciascuna disciplina scientifica e ciascuna professione si dà, e quanto tali cornici influenzino gli obiettivi di ciascuna disciplina e professione oltre che la percezione che i cittadini hanno di esse.

La fiducia negli scienziati, per esempio, discende dalla convinzione che la loro professione e attività sia ispirata da alcuni principi inderogabili. Già nel 1993, nel suo libro sull’etica della scienza, David Resnik li aveva elencati con chiarezza: onestà nel riportare i dati scientifici; trascrizione e analisi accurata dei risultati per evitare errori; interpretazione e analisi indipendente dei risultati basate sui dati e non influenzate da fonti esterne; condivisione trasparente della metodologia, dei dati e delle interpretazioni attraverso pubblicazioni e presentazioni; validazione dei risultati attraverso replicazione degli esperimenti e collaborazioni tra pari; attribuzione corretta delle fonti di informazione, dei dati e delle idee; obbligo morale verso la società in generale e, in alcune discipline, responsabilità anche nel vagliare eventuali rischi per i diritti umani e animali [7].

Definire un’etica professionale è quindi uno strumento essenziale per stabilire con precisione gli obiettivi che si vogliono raggiungere, i mezzi con i quali è lecito farlo e la metodologia attraverso la quale si vuole arrivare al risultato.

Per la comunicazione della scienza può essere complicato arrivare a definire in modo chiaro e univoco un bagaglio di norme etiche che contribuisca anche alla creazione di una identità professionale condivisa e riconosciuta da tutti gli attori, ma è ormai evidente che solo una chiara cornice etica e deontologica può disegnare i contorni delle diverse figure professionali, il loro ruolo nell’ecosistema della scienza e, alla fin fine, il loro impatto sulla società.

Anche la Comunità europea, che ha puntato molto sul concetto di “ricerca e innovazione responsabile” per cercare di riconquistare la fiducia dei cittadini nelle soluzioni offerte dalla scienza ai problemi di un mondo in rapido cambiamento, ha compreso che la comunicazione della scienza è un tassello essenziale per ottenere il risultato sperato, ma non ha ancora compreso quanto è importante garantire ai cittadini che anche questa attività risponda a principi etici solidi e condivisi come quelli che governano (o dovrebbero governare) la prassi della scienza.

Eppure un modello professionale da cui partire per costruire, se non altro per confronto, tutti gli altri già esiste ed è quello del giornalismo scientifico.

Da molti decenni la comunità dei giornalisti scientifici si interroga sulle proprie peculiarità etiche: da un lato, infatti, condivide con il giornalismo generalista la necessità di essere indipendente, di evitare i conflitti di interesse e di sorvegliare il proprio ambito di interesse (in questo caso la ricerca scientifica e il progresso tecnologico) per allertare i cittadini quando qualcosa non funziona come dovrebbe; dall’altro condivide con la scienza un approccio metodologico che è anche valoriale, ovvero la raccolta indipendente dei dati, la valutazione degli stessi senza influenze esterne, la replicabilità delle conclusioni, la necessità di mettere in luce le aree di incertezza, da cui possono scaturire smentite e nuove scoperte.

Proprio per la loro scomoda posizione intermedia tra due discipline, i giornalisti scientifici hanno spesso rapporti tesi con i colleghi generalisti ma anche con gli scienziati. I primi, per esempio, faticano a comprendere perché alcuni principi di base del buon giornalismo (come per esempio quello di riferire con equilibrio tutte le opinioni) non sono applicabili tali e quali al giornalismo scientifico, che fa proprio il metodo scientifico basato su ipotesi, verifica e validazione. Dall’altra parte gli scienziati non comprendono perché il giornalista scientifico dia peso agli errori della scienza (per esempio al tema delle frodi e dei conflitti di interesse) nonché agli aspetti sociali e valoriali delle scoperte, non limitandosi quindi alla semplice narrazione dei fatti (o dei dati).

Un giornalismo scientifico etico è anche uno strumento di consolidamento della fiducia dei cittadini nei confronti della scienza, come spiega in una intervista Gary Schwitzer, giornalista e ideatore del progetto HealthNewsReview.org che per anni ha valutato gli articoli di medicina su nuovi approcci terapeutici pubblicati sulla stampa statunitense alla luce di alcuni principi di corretta informazione, riportando agli autori i risultati della valutazione e riuscendo, seppure con difficoltà, a migliorare la qualità del giornalismo medico negli Stati Uniti.

Il mio progetto è stato sempre molto più che un progetto di watchdog, di sorveglianza. Il nostro obiettivo è quello di sollecitare il pensiero critico riguardo alle affermazioni
fatte su alcuni trattamenti, test, prodotti o procedure – quello di aiutare le persone a imparare pochi concetti necessari a valutare autonomamente le affermazioni che nascono dalla ricerca medica.
[…]
“Quando le notizie di salute sono riportate in modo inaccurato, sbilanciato o senza prove a sostegno, le persone ne verranno inevitabilmente danneggiate perché riporranno la loro fiducia in approcci di efficacia non provata, fisseranno appuntamenti non necessari con il medico per via di qualcosa che hanno visto o sentito al notiziario – e solo per essere smentiti – con una perdita di tempo per tutti; spenderanno tempo e denaro nel perseguire idee inutili invece di impegnarsi, nella vita, in ciò che è sostenuto da prove. Più in generale, i consumatori di notizie, confusi e frustrati, perderanno fiducia nella medicina e nella scienza. E anche l’integrità del giornalismo e la sua credibilità verranno danneggiate” [8].

Il lavoro portato avanti da Gary Schwitzer costituisce un esempio del ruolo che il giornalismo scientifico svolge anche nei confronti della scienza e che gli eticisti coinvolti nel progetto europeo SATORI hanno definito “valutazione etica e sociale informale”. Sempre più spesso, infatti, chi propone una ricerca o chi sviluppa una nuova tecnologia viene chiamato a valutare in anticipo le possibili conseguenze etiche e sociali del proprio lavoro.

Per farlo esistono metodologie ben precise [9, 10] ma spesso i migliori giornalisti scientifici svolgono un lavoro investigativo guidato da un approccio meno sistematico che
porta a risultati analoghi e che dovrebbe servire a offrire ai cittadini le informazioni necessarie a comprendere e valutare le innovazioni scientifiche e tecnologiche, sempre che qualcuno sia interessato a pubblicare tali articoli e che il pubblico riesca a fidarsi dell’autore.

Non a caso, un recente articolo pubblicato da Thomas Hayden ed Erica Check Hayden su Frontiers in Communication parla di “Inaspettata età dell’oro per il giornalismo scientifico” e si riferisce soprattutto alla qualità e quantità di articoli di giornalismo ambientale prodotti negli Stati Uniti da quando il presidente Donald Trump ha avviato la sua campagna antiscientifica improntata al negazionismo climatico, e ciò malgrado l’enorme crisi economica del settore [11]. “A fronte di carriere che non sono mai state così precarie, assistiamo a un fiorire di giornalismo ambientale e scientifico di qualità, che cerca di sfruttare i nuovi mezzi digitali per arrivare ai cittadini” scrivono gli autori.

Carrie Figdor, filosofa ed esperta di comunicazione, è andata persino oltre in un articolo uscito sempre su Frontiers in Communication e individuando un problema epistemologico di base si è chiesta: “quando il giornalismo scientifico è etico?” [12].

“La responsabilità epistemica è già una norma formale della professione: per esempio il Codice etico della US Society for Professional Journalists stabilisce che il giornalista ‘si assume la responsabilità dell’accuratezza del suo lavoro’ e ‘della verifica dell’informazione prima di rilasciarla’. La questione è come fa il giornalista a soddisfare questa norma epistemica quando è convinto che gli scienziati non stiano seguendo un metodo etico di indagine”

scrive, aggiungendo che, sebbene il giornalismo scientifico sia nato con una funzione di cheerleader (ovvero di fan incondizionato) della scienza, oggi ha invece il ruolo di sorvegliante della scienza e ne influenza direttamente la qualità. E conclude:

“I giornalisti scientifici e gli scienziati sono due figure distinte, con la notizia scientifica come principale prodotto interdisciplinare”

A suggellare la specificità del giornalismo scientifico nel complesso e cangiante ecosistema della comunicazione della scienza ci ha pensato anche la giornalista scientifica della BBC Susan Watts sulla rivista Nature. Scrive la Watts in un articolo del 2014 che

“c’è una differenza fondamentale tra la comunicazione della scienza e il giornalismo scientifico. Ad un estremo della comunicazione della scienza vi sono le storie che mostrano alla gente quando eccitante sia la scienza, la scoperta di un materiale meraviglioso, a volte, o una nuova particella subatomica.
[…]
Il lavoro del giornalismo scientifico è di raccontare storie che esplorino il ventre molle della scienza
[…]
Abbiamo bisogno di giornalismo scientifico per dare il giusto peso ai valori e vizi della nuova scienza. Senza di essi, faremmo fatica a porre la scienza nel suo contesto sociale mentre accettiamo le sue sfide
[…]
Il rischio è che nella nostra intossicazione per la “meraviglia” della scienza, perdiamo di vista il suo lato oscuro. O che, peggio, evitiamo deliberatamente di porre le domande che mettono in difficoltà gli scienziati e i tecnologi riguardo al lavoro che fanno. Se perdiamo questa prospettiva critica, perdiamo la capacità di avere una prospettiva su ciò che vogliamo dalla scienza” [14].

Indipendenza, trasparenza delle fonti, rigore metodologico nell’analisi, integrazione degli aspetti sociali e valoriali nel discorso scientifico e nella valutazione di impatto della scienza: si potrebbero riassumere così gli elementi etici essenziali del buon giornalismo scientifico che “nel suo sforzo di riduzione della complessità permette l’espansione della comprensione da parte del pubblico” [13].

E le altre figure professionali coinvolte nella comunicazione della scienza? È possibile pensare che anche per loro questi possano essere principi fondanti e ispiratori? La risposta non è semplice, sebbene in alcuni casi (per esempio nel caso dei produttori di eventi culturali scientifici, degli animatori di festival, degli educatori, di coloro che fanno divulgazione scientifica sui social media) è certamente possibile, previa una riflessione collettiva e una professionalizzazione di chi ha scelto di fare di queste attività il proprio lavoro.

È più difficile pensare di applicare tali principi quando si tratta di scienziati (se non altro perché spesso si trovano a parlare del proprio lavoro o del proprio ambito di conoscenza verso il quale non possono avere l’obiettività di un esterno) oppure di uffici stampa o uffici comunicazione, il cui compito è quello di mettere in luce positiva la propria istituzione o il ricercatore di cui si cura la divulgazione [15].

E questo benché in Italia la legge 150 del 2000 abbia introdotto un ossimoro etico, imponendo l’iscrizione all’Ordine dei giornalisti per tutti coloro che lavorano negli uffici stampa e comunicazione delle amministrazioni pubbliche e delle università che dovrebbero, teoricamente, essere la “controparte” del giornalista e del comunicatore di scienza indipendente.

È possibile però pensare a una riflessione congiunta che delinei gli scopi delle diverse figure professionali nel contesto della comunicazione scientifica in relazione ai cittadini e, di conseguenza, un insieme di principi etici che saranno inevitabilmente in parte condivisi e in parte diversi.

Un lavoro tanto più necessario ora che la divulgazione scientifica è entrata a far parte a pieno titolo anche dei compiti degli scienziati e ricercatori che lavorano nelle università e che vengono valutati anche per la cosiddetta “terza missione”, dopo ricerca e didattica, che comprende tutte le attività di “apertura verso il contesto socioeconomico mediante la valorizzazione e il trasferimento delle conoscenze” ma non prevede una formazione ad hoc né sul piano pratico né tantomeno sul piano etico.

Per rispondere alla domanda di Medvecky “che cosa rende la comunicazione della scienza una cosa buona?” manca poi ancora un elemento: la valutazione di ciò che si fa, ovvero la misurazione dell’impatto. Uno dei grandi problemi della comunicazione della scienza, oggi, è la difficoltà di misurare in modo obiettivo la sua efficacia, l’impatto che
ha sui cittadini ma anche sulla scienza e sul modo con cui questa attività viene condotta. Senza questa valutazione è difficile definirne a priori il valore sociale.

Benché esistano numerosi strumenti che si propongono di stabilire, con metodologie quali-quantitative come questionari e interviste, quanto un prodotto di comunicazione della scienza sia efficace, quello che manca è una riflessione collettiva su ciò che si vuole ottenere, su quale figura professionale sia più adatta ad assolvere al compito e con quali strumenti.

Perché, alla fine, gli obiettivi possono – e devono – essere tanti: educare, migliorare il rapporto dei cittadini con la scienza, favorire la creazione di politiche ispirate a principi scientifici, rendere gli scienziati più consapevoli del proprio ruolo sociale e dei doveri verso i loro concittadini, ridurre la platea dei seguaci delle pseudoscienze, indurre cambiamenti comportamentali, incuriosire, informare, coinvolgere i cittadini nelle decisioni scientifiche e persino attivamente nella ricerca scientifica, fornire tempestivamente a cittadini e decisori politici gli elementi di conoscenza utili a prendere le decisioni che riguardano la collettività.

Solo avendo chiaro ciò che si vuole ottenere si può valorizzare la professionalità delle diverse figure e valutare l’efficacia del loro intervento.

Conclusioni

La creazione di un chiaro quadro di riferimento etico e deontologico è una premessa necessaria alla definizione di una identità professionale e alla credibilità di ciascuna professione. Nel campo della comunicazione della scienza, partire dagli aspetti etici permetterebbe anche di stabilire quali sono gli ambiti di azione e gli strumenti delle diverse figure professionali coinvolte, anche quando queste sono incarnate dallo stesso individuo, aiutando anche nella difficile ma inevitabile gestione dei conflitti di interesse (quelli reali e quelli anche solo percepiti).

Esistono già riflessioni etiche e deontologiche che riguardano la professione dello scienziato e quella del giornalista scientifico: partire da queste dovrebbe consentire di definire, anche per analogia o contrasto, le altre figure. La riflessione etica consente anche di intervenire nella formazione, per colmare i bisogni che emergono dalla discussione (per esempio la necessità di fornire ai comunicatori della scienza sia competenze scientifiche sia umanistiche, in particolare nel campo della filosofia della scienza, della psicologia sociale e della sociologia).

1. Fabien Medvecky and Joan Leach. The ethics of science communication. JCOM 2017; 16 (4). https://doi.org/10.22323/2.16040501.
2. Dietz T. Bringing values and deliberation to science communication. PNAS August 20, 2013 110 (Supplement 3) 14081-14087; https://doi.org/10.1073/pnas.1212740110.
3. IPSOS Mori Veracity Index, 2018. https://www.google.com/search?client=firefox-b-d&q=IPSOS+MOri+veracity+index+2017+profession#.
4. Edelman Trust Barometer, 2019. https://www.edelman.com/trustbarometer.
5. Funk C. Mixed Messages about Public Trust in Science. Issues in Science and Technologies 2017, vol. XXXIV, issue 1. https://issues.org/realnumbers-mixed-messages about-public-trust-in-science/.
6. SATORI Project. Comparative analysis of ethics assessment practices. http://satoriproject.eu/work_packages/comparative-analysis-of ethics-assessment-practices/.
7. Resnik, D. (1993). Philosophical foundations of scientific ethics. Proceedings of Ethical Issues in Physics. Eastern Michigan University, Ypsilanti, MI ( July 17-18, 1993).8. Green S. The Ethics of Science and Health Journalism: a Q&A with Gary Schwitzer. Wiley, June 8, 2017. https://www.wiley.com/network/societyleaders/research-impact/the ethics-of-science-and-healthjournalism-a-q-a-with-gary-schwitzer.
9. Jasanoff S. Technologies of humility: citizens participation in governing science. Minerva 2003; 41 (3). Special Issue: Reflections on the New Production of Knowledge, pp. 223-244.
10. Brey P. Anticipatory Ethics for Emerging Technologies. Nanoethics (2012) 6:1–13. DOI 10.1007/s11569-012-0141-7.
11. Hayden T, Check Hayden E. Science Journalism’s Unlikely Golden Age. Front. Commun. 2:24. doi: 10.3389/fcomm.2017.00024.
12. Figdor C. (When) Is Science Reporting Ethical? The Case for Recognizing Shared Epistemic Responsibility in Science Journalism. Front. Commun.,
02 February 2017 | https://doi.org/10.3389/fcomm.2017.00003.
13. Scott Brennen J. Magnetologists on the Beat: The Epistemology of Science Journalism Reconsidered. Communication Theory, Volume 28, Issue 4, November 2018, Pages 424–443, https://doi.org/10.1093/ct/qty001.
14. Watts, S. Society needs more than wonder to respect science. Nature 2014; 508: 151 doi:10.1038/508151a.
15. Woloshin S, Schwartz L et al. Press releases by academic medical centers: not so academic? Ann Intern Med. 2009;150(9):613-618. DOI: 10.7326/0003-4819-150-9-200905050-00007.

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